Yuri Basilicò di Va' Sentiero racconta l'esperienza del Cammino Classico di Celestino, cammino certificato Touring nell'ambito del progetto Cammini e Percorsi, cui è dedicato anche il nuovo volume della collana "In cammino". Ecco tutti gli articoli, le schede e i volumi sui cammini certificati:

In Italia sono poche le montagne con un nome femminile. Agli alpinisti può forse venire in mente la Grivola, che si erge impettita di fronte al Gran Paradiso, in Valle d’Aosta. Nel basso ventre dell'Appennino invece, meno alpinistica e più misteriosa, di fronte a un altro “Gran” monte, è la Maiella. Un dosso abnorme e levigatissimo.

Sebbene il nome derivi probabilmente da “Magella”, abbia origini pre-indoeuropee e significhi qualcosa come “Grande Montagna”, una certa leggenda popolare abruzzese vuole il legame col mito greco. Maia era una delle Pleiadi, la più bella delle sette sorelle. Fu amata da Zeus in una grotta solitaria del Monte Cillene, in Arcadia, e da quell’amore clandestino nacque Ermes, messaggero degli dèi e dio dei ladri. In seguito, Maia dovette fuggire dalla Frigia per portare in salvo il figlio, ferito gravemente in battaglia. Venne sui monti d’Abruzzo alla ricerca di un’erba miracolosa per curarne le ferite mortali, ma la spessa neve le impedì di scovare il rimedio ed Ermes le spirò tra le braccia. Dopo averlo seppellito, Maia gli si accasciò di fronte: così, innanzi al Gran Sasso (“il gigante che dorme”), nacque la Maiella. 

Il parco della Maiella - foto Shutterstock
Il parco della Maiella - foto Shutterstock

Maia o Magella, dal versante marittimo il profilo della Maiella appare come il corpo di una donna sdraiata. Tra i seni occidentali si snoda il Cammino di Celestino - al secolo Pietro da Morrone, che visse qui da eremita e fu persino papa per pochi mesi, col nome di Celestino V. 

La versione originale (il Cammino Grande) si estende per oltre 200 km, da L’Aquila fino alla città di Ortona sulla costa adriatica. Dal 2018 è stato istituito anche il Cammino Classico, una versione più breve e accessibile, di 90 km, dalla Badia Morronese di Sulmona fino all’abbazia di San Liberatore a Maiella di Serramonacesca (qui la scheda completa, con la descrizione tappa per tappa).

Lungo il Cammino di Celestino - foto Touring
Lungo il Cammino di Celestino - foto Touring

La natura di Maia

«Quello che più mi è piaciuto del cammino è la natura: si fa una bella vita, con Celestino», scherza Barbara Gizziautrice della guida appena pubblicata col Touring, fresca di sopralluogo.

«Da lontano la Majella è un panettone glabro e informe. Ma a scoprirla da vicino, nelle sue pieghe generose, la montagna è verdissima e cangiante. Si tratta di un territorio carsico modellato dall’acqua e dal vento, ora di valli ampie e solitarie, ora di gole profonde e odorose di muschio. Nel mito greco, Maia è il simbolo della stagione della pioggia, il dono del cielo che fa germogliare il seme della terra; lungo il cammino l’acqua di Maia prende forma nei fiumi che scandiscono le tappe. L’Orta scivola tra il Morrone e il Monte Amaro in una vallata aperta e dolcissima, come una culla. L’Orfento, smeraldo e cristallino, ha scavato una gola verticale dalle lussureggianti pareti. E infine l’Alento, che scorre pigramente in un canyon sinuoso, luogo di antiche tombe rupestri».

Oltre al paesaggio cangiante, vanto della Maiella è la fauna. Il camoscio appenninico che scarrozza per le bianche pietraie sommitali, il cervo che bramisce cupo nella selva durante la stagione degli amori; l’orso marsicano, più minuto e di più mite indole rispetto al cugino bruno delle Alpi orientali, e il lupo, di cui il Parco registra la più alta densità al mondo: circa 70, 80 individui, organizzati in una decina di branchi, che si nutrono quasi esclusivamente di prede selvatiche. Il Parco della Maiella è grande, c’è spazio per tutti.

Il fiume Orfento - foto Shutterstock
Il fiume Orfento - foto Shutterstock

La città può stare stretta

«Amo viaggiare, andrei ovunque… ma c’è un solo posto dove tornerei». A Pacentro, delizioso paesino dalle torri merlate che segna l’ingresso del cammino nel Parco, vive Virginia Sciore. Studiava all’università di Bologna, ma a 24 anni la nostalgia delle sue montagne l’ha fatta tornare.

«Mi stava stretta la città. Sono cresciuta negli spazi aperti, da piccola andavo a cavallo con mio nonno. Così sono rientrata e ho preso il brevetto di guida escursionistica. Poi nel 2018 mio padre è rimasto senza lavoro, è stato un momento delicato, abbiamo dovuto reinventarci. Coi miei, Stella e Giocondo, abbiamo deciso di buttarci in una nuova avventura - o piuttosto di tornare alle radici, dato che entrambe le loro famiglie avevano un passato agropastorale - e abbiamo aperto una piccola azienda agricola. Dalla primavera all’autunno lavoriamo con le capre e il caseificio, mentre in inverno ci dedichiamo ai salumi di maiale. Nel frattempo abbiamo iniziato a organizzare dei laboratori aperti al pubblico: avevamo una vecchia casa di campagna, i miei l’avevano comprata tanti anni fa per farne un’abitazione ma col tempo era diventata una rimessa agricola, un rustico dove andavamo a fare conserve di pomodoro, a imbottigliare il vino, cose del genere; allora l’abbiamo convertita e battezzata ufficialmente come già la chiamavamo in famiglia, la Casa vecchia».

Pacentro - foto Shutterstock
Pacentro - foto Shutterstock

Virginia si ferma un attimo, poi riprende con tonalità più vigorosa. «Non facciamo il formaggio solo per fare formaggio. Lo vedo come un progetto di educazione sull ’importanza delle stagioni - mangiare non è solo sfamarsi, è consapevolezza di un luogo, dei perché, del tempo che richiedono. All’inizio è stato difficile, il nostro è uno stile di vita, non soltanto un lavoro, ti prende tutto il giorno e ogni giorno è diverso. Ma le soddisfazioni sono arrivate, dai ragazzi che vengono dall’estero a fare tesoro della nostra esperienza, al cerchio di persone affini che si è creato intorno, gli abruzzesi con la loro presenza discreta ma calorosa, spontanea, in crescendo: mi sono sentita accolta, tornando alla mia terra. E poi a giugno saliamo in alpeggio a 1200 metri, portiamo le capre a pascolare tra il Morrone e la Maiella, stare lassù mi riempie di motivazione». Perché? «Questa montagna esercita un richiamo spirituale su di me, mi commuove. Sono tornata qui per lei».

Gli eremi della Maiella

A proposito di spiritualità, nel Parco della Maiella sono presenti una quarantina di luoghi di culto spesso inseriti - o meglio incastonati - in una cornice d’eccezione.

L'eremo di San Bartolomeo in Legio - foto Shutterstock
L'eremo di San Bartolomeo in Legio - foto Shutterstock

«Lungo il Cammino di Celestino si incontrano sette eremi rupestri, spesso mimetizzati nel paesaggio, eredità dell’esperienza eremitica dei frati di Celestino e del loro monachesimo povero, profondamente legato alla natura, che ha segnato la spiritualità appenninica», ci spiega John Forcone, dell’Ufficio Promozione del Parco. che a dispetto del nome roboante parla in maniera piuttosto asciutta.

Tra gli altri, John ricorda l’eremo di Sant’Onofrio al Morrone, costruito su un terrazzo naturale a picco sulla valle di Sulmona, o Santo Spirito a Majella, nei pressi di Roccamorice, quartier generale dei frati celestini, articolato su più livelli dove cappelle, celle e ambienti di servizio sono ricavati direttamente nella roccia viva. Oppure ancora San Bartolomeo in Legio, raggiungibile solo a piedi per una stretta gola, dove Celestino si rifugiava in completo isolamento ricevendo occasionalmente il cibo lasciato dai fedeli su una pietra - una nicchia della chiesetta, meta di pellegrinaggi sin dal Medioevo, custodisce una statua del santo che ancora oggi durante le celebrazioni del 25 agosto viene immersa nelle acque del torrente poco distante.

L'eremo di Santo Spirito a Maiella - foto Shutterstock
L'eremo di Santo Spirito a Maiella - foto Shutterstock

L‘eremo preferito di John - si prende il giusto tempo per pensarci - è quello di San Giovanni, a ben 1227 metri, interamente scavato nella parete verticale della Valle dell’Orfento. «L’accesso è lungo e laborioso, difficilmente ci finisci per caso e tanta gente rinuncia a visitarlo: occorre percorrere una scala larga quaranta centimetri e poi una cengia sospesa su dieci metri di salto… non per tutti. Da ragazzi, qui, raggiungerlo è quasi un rito di passaggio. Gli eremi non sono reperti storici, sono luoghi di devozione viva, come testimoniato dalle processioni che si svolgono ogni anno, e sono motivo di orgoglio. Celestino stesso gode ancora di ampia popolarità: conosciamo la figura, la sua storia singolare. A scuola ci viene fatto leggere quel libro di Silone, L’avventura d’un povero cristiano».

L'eremo di San Giovanni - foto Shutterstock
L'eremo di San Giovanni - foto Shutterstock

Il coraggio di Celestino

Pietro Angelerio da Morrone nacque (probabilmente) nel 1209 in Molise, da una famiglia di contadini. In gioventù intraprese un cammino di radicale ascesi e si ritirò in una caverna sul monte Morrone, da cui il toponimico. Presi i voti a Roma, tornò a rifugiarsi sulla Maiella e fondò la congregazione dei celestini, detti Fratelli di Santo Spirito. La sua fama si diffuse largamente attirando discepoli e pellegrini.

Superati gli ottant’anni di età, tuttavia, un fatto straordinario ne mutò il corso della vita. Dopo la morte di papa Niccolò IV nel 1292 e un conclave durato ben ventisette mesi e funestato da un’epidemia di peste, nonostante non fosse cardinale Pietro fu eletto papa - a ragione della sua fama mistica, o della presunta influenzabilità. In sella a un asino guidato dal re Carlo II d’Angiò in persona, scese dai monti e si recò a L’Aquila, ove fu incoronato col nome di Celestino V.

Completamente ignaro dei complessi meccanismi della Curia romana, il nuovo pontefice si trovò immerso in un ambiente sordido e dominato dagli intrighi politici. Soffocato dal senso di impotenza e dalla mondanità del suo ruolo (così antitetica rispetto alla precedente vita contemplativa), constatata l’impossibilità di conciliare l’esercizio del potere con quello spirituale, pochi mesi dopo la nomina Celestino abdicò. Questo gesto di rottura lo rese figura unica nella storia della Chiesa e creò un precedente che verrà citato, nel 2013, da papa Ratzinger.

Nel terzo canto dell’Inferno, dedicato al girone degli ignavi (coloro che non prendono mai posizione), Dante scrisse: “...vidi e conobbi l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto”. Sebbene non venga nominato, l’interpretazione tradizionale vede il riferimento a Celestino che, col suo passo indietro, lasciò campo al famigerato Bonifacio VIII, nemico giurato del Sommo Poeta e responsabile del suo esilio. Dante non fu l’unica vittima di Bonifacio VIII: temendo che il predecessore potesse essere utilizzato come simbolo di opposizione, il nuovo papa lo fece imprigionare nel castello di Fumone (nel Frusinate), dove Celestino morì nel 1296. 

Oggi l’evoluzione storiografica ha portato a una profonda rivalutazione del giudizio dantesco: non un codardo, ma un uomo coerente con la sua vocazione, che antepose la propria coscienza alle lusinghe del potere. Lo scrittore abruzzese Ignazio Silone, le cui vicende personali ebbero per altro delle analogie con quelle del papa-eremita (fu espulso dal Partito Comunista dopo un lungo rapporto conflittuale, non da ultimo in ragione della sua fede cattolica), dedicò la sua ultima opera alla figura di Celestino. 

L’avventura d’un povero cristiano (Premio Campiello 1968) è una sorta di pièce teatrale e disegna la parabola di un “essere al quale francamente è impossibile non voler bene”, scrive Silone: “che ebbe due vocazioni, e tutte e due di una forza eccezionale, direi quasi irresistibile: quella dell’eremita e quella del pastore. Di avere due vocazioni è capitato anche ad altri e può essere principio di grandi dolori. È una grazia, voglio dire, che può diventare una disgrazia”.